SI PUO’ GUARIRE CON UN VELENO? – di Emanuele Severino, Corriere della Sera – Venerdì 27 Giugno 1980

Senza una fede – si dice – non si può vivere. Sì; ma proprio perché la vita è fede, la vita è errore. Non semplicemente nel senso che la vita sia lo spazio al cui interno può accaderci di errare, ma nel senso che é proprio in quanto si vive che si erra.

La violenza è l’aspetto più visibile dell’errare. La vita è violenza proprio in quanto fede.da sempre e ovunque la vita dell’uomo è completamente immersa nella fede. Giacché, fede, non è soltanto quella religiosa, ma anche tutte le altre infinite forme di fede: anche il senso comune, il “buon senso” degli uomini; anche il non sentire alcun bisogno di Dio; e anche l’amore, l’odio, la volontà di dominio, la poesia, ogni forma di ideologia, di legge e di violazione della legge; e perfino la scienza. E’ fede anche ciò che la civiltà occidentale ha chiamato “verità”. E l’incredulità e il dubbio non sono che il risvolto di una certa fede, che rifiuta quelle antagoniste ed è indubbio su quelle che per il momento non la mettono a repentaglio.

Per evitare l’errore e la violenza dovremmo, allora, cessare di vivere? Uccidere ed ucciderci? No: l’uccidere e il distruggere sono le forme più intense di vita: insieme al generare e al produrre. Anche nelle lingue indoeuropee le parole che nominano la vita e la violenza sorgono da un fondo linguistico comune. L’antica lingua greca chiama bìos la vita e bìa la violenza; e la parola latina vis (così vicina, nella sua struttura, a vita) significa appunto “vi-olenza”.

Attenderemo allora inerti che ci raggiunga il nulla della morte? Nemmeno: che il nulla possa raggiungere le cose è la fede che ormai guida – evocata una volta per sempre dal pensiero greco – tutte le fedi della nostra civiltà. Che cosa dovremo fare, allora, per evitare l’errore e la violenza? ma è proprio necessario che si debba fare qualcosa? Il “fare” è uno dei tanti nomi della vita; e se la vita è errore, anche la domanda “che fare?” è errore ed è errore rispondervi (ma anche l’inerzia e la rinuncia alla vita sono modi di fare, cioè di vivere) Ma, è lecito continuare un discorso di questo tipo?

Il mondo si trova nel momento più drammatico della sua storia. In questo dramma è particolarmente grave la situazione in Italia. Ogni sforzo deve allora concentrarsi sui problemi reali che ci assillano. La cultura collaborare alla loro soluzione. E tale soluzione è un modo di promuovere la vita. Perché, allora, perdere altro tempo con questo discorso, dove si sentenzia che la vita è errore e violenza proprio in quanto fede?

Eppure tutti comprendono che se uno ha bevuto un bicchiere di veleno, non gliene si dà, per guarirlo, un altro mezzo bicchiere. Non gli si dà nemmeno un veleno di tipo diverso; e nemmeno uno meno forte. E se proprio questa fosse la situazione in cui si trovano le forze che si propongono di risolvere i problemi reali del nostro tempo: la situazione in cui ci si sforza di somministrare del veleno per guarire dall’avvelenamento? E se il veleno fosse proprio la fede come tale – e quindi nel suo esser presente in ogni forma di fede? E si volesse guarire dalle fedi malvagie aggrappandosi ancora una volta alla fede, alle grandi e nobili fedi che da millenni riempiono l’animo degli uomini, o alle nuove fedi che sembrano più efficaci per la promozione della vita?

Se non abbiamo troppa fretta di liquidare – prima ancora di averli capiti – discorsi che non ci fanno comodo, si deve innanzi tutto mettere in luce il rapporto tra fede e violenza. Al solito, non potrà essere che un cenno, qui – e relativo solo all’aspetto accessibile del problema. C’è violenza quando si oltrepassa un limite che non deve essere oltrepassato.

Le leggi, i comandamenti, la “voce della coscienza” stabiliscono quali sono i limiti inoltrepassabili. Il comandamento dice, ad esempio: “Non uccidere”. Dal punto di vista del comandamento, l’omicidio oltrepassa un limite inoltrepassabile, perché nell’omicidio l’uomo non viene trattato come uomo, ma com animale, pianta, pietra, manufatto. Da quel punto di vista, infatti, l’uomo è ciò che non deve essere ucciso, sì che l’ucciderlo è trattarlo come non-uomo. L’omicidio non è quindi semplicemente un’azione, ma è un giudizio che giudica l’uomo e gli dice: tu non sei un uomo. Il comandamento di non uccidere prescrive invece di trattare l’uomo come uomo.

Dal punto di vista della legge, la violazione della legge appare insieme come errore, come giudizio falso. A prima vista, la fede sembra non aver nulla a che spartire con la violenza. Aver fede significa credere, riporre la propria fiducia in qualcosa. Ma ciò in cui, credendo,, vien riposta la fiducia è sempre accompagnato dalla grande ombra del “no”, il grande uccello rapace che si libra silenzioso su tutte le cose affermate dalla fede. Tutto ciò che la fede afferma può essere una preda del “no”; può essere negato da una fede contraria. E ogni modo di vivere conformemente a una certa fede ha lo stesso valore dell’opposto modo di vivere. A riconoscere tutto questo sono le stesse forme più evolute di fede.

Ad esempio la fede cristiana e la fede scientifica. L’apostolo Paolo dice che le cose in cui si ha fede sono “invisibili” non apparentia. Non semplicemente nel senso che esse siano assenti dai nostri sensi, ma nel senso che non sanno liberarsi dall’ombra del “no”. Appunto per questo nella fede, si abita, come scrive l’apostolo, “con timore e tremore”. A sua volta la scienza contemporanea enuncia tutte le proprie leggi “con timore e tremore” in quanto è consapevole della possibilità della loro smentita. La cultura occidentale è giunta alla convinzione che tutte le conoscenze di cui l’uomo dispone sono incapaci di liberarsi dall’ombra del “no”.

C’è indubbiamente un’enorme differenza tra la conoscenza di cui è fornito un bambino e la conoscenza scientifica, ma l’una e l’altra hanno in comune l’incapacità di costituirsi come verità assolute e incontrovertibili, come il “sì” rispetto al quale dilegua il “no”. Esistono infiniti gradi di ciò che viene chiamato “ragionevolezza della fede”, ma la distanza tra il grado più alto e qual “sì” è infinita rispetto al grado più basso. Analogamente, il cristianesimo crede che il più potente dei re e il più umile degli uomini si trovino entrambi alla stessa distanza, infinita, rispetto alla gloria di Dio.

Ma più decisiva della gloria di Dio è la gloria del “sì”, giacché solo per questa la gloria di Dio potrebbe non essere minacciata dall’ombra del “no”. La minaccia, dunque, cui è sottoposta ogni fede. Ciò in cui si ha fede è dunque invisibile, oscuro, esposto alla minaccia del “no”. Cionostante la fede ripone in esso la propria fiducia. Cioè lo tratta – lo vuole – come visibile, chiaro, sottratto alla minaccia di ogni “no”: lo tratta come verità assoluta, incontrovertibile, indubitabile. Come l’omicidio dice all’uomo: “Tu non sei uomo”, così la fede (ogni fede) dice all’oscuro: “Tu non sei oscuro”. Dice a ciò che è minacciato dal “no”: “Tu sei sicuro”. Dice alla “non-verità”: “Tu sei verità”. La fede oltrepassa, così, il limite che trattiene l’oscuro nella propria oscurità e il chiaro nella propria chiarità. Un limite, anche questo, che non deve essere oltrepassato. Ma la violenza è l’oltrepassare i limiti inoltrepassabili. La fede è quindi proprio in quanto fede, violenza.

La fede oltrepassa un limite inoltrepassabile proprio nell’atto in cui essa stabilisce che certi limiti sono inoltrepassabili. All’interno della cultura occidentale, tutte le leggi, i comandamenti, le “voci della coscienza” sono divenuti contenuto della fede, cioè affermazioni esposte alla minaccia del “no”. Accade quindi che la legge, che proibendo l’omicidio prescrive di trattare l’uomo come uomo, sia insieme, in quanto essa è il contenuto di una certa fede, un trattare l’oscuro come non oscuro, il chiaro come non chiaro, Non solo, ma il limite oltrepassato dalla fede è proprio dal punto di vista di quest’ultima che non deve essere oltrepassato, giacché una fede che proibisce che l’uomo sia non-uomo non piò tollerare che l’oscuro sia non-oscuro.

E’ la fede stessa a riconoscere implicitamente di essere violenza. La legge ha, dunque, la stessa essenza del delitto che essa proibisce: la volontà di oltrepassare ciò che non deve essre oltrepassato, la volontà di trattare qualcosa come se fosse altro da ciò che esso è. Nella legge e nel delitto varia soltanto chi subisce la violenza, non la natura della violenza. Nessuna legge, quindi, in quanto essa è fede, può guarire dall’avvelenamento della violenza: la legge stessa avvelena.

Contro questa conclusione si può obiettare che il problema è male impostato. Infatti, anche supponendo che a fede (e la legge in quanto fede) sia violenza, è però fuori discussione che la violenza del comandamento di non uccidere è incomparabilmente più sopportabile della violenza dell’omicidio. Non si tratta di guarire dall’avvelenamento somministrando altro veleno, ma di organizzare la vita in modo che il veleno si sia costretti a ingerirlo a gocce, invece che a bigonce.

E’ il discorso che vien fatto da molti di coloro che hanno fede nella democrazia: la democrazia non è un bene, è il male minore. E, si aggiunge, si diffidi dei progetti che non si accontentano di perseguire il male minore, ma vogliono realizzare nella società il bene e la felicità. Questa obiezione è senz’altro un’arma che la fede nella democrazia può impugnare contro la fede nella dittatura. ma, impugnandola, ci si trova nella condizione di chi, per tenere fuori i ladri, socchiude la porta invece di lasciarla spalancata. Anche se socchiusa, la porta è pur sempre aperta. ( E anche la dittatura la lascia aperta, se non semispalancata).

La legge, in quanto fede, è una porta socchiusa davanti al delitto. Cioè aperta al delitto. Tenendo in vita sé stessa, la legge tiene in vita l’essenza della violenza, cioè l’essenza della violazione della legge; tiene in vita la condizione fondamentale perché la legge possa essere violata. Nel male minore è covata la condizione perchè esso possa diventare il massimo male (ossia ciò che è tale dal punto di vista di coloro che credono di sapere che cos’è il male). La goccia è preferibile al barile di veleno. Certo, per molti è preferibile. (Anche per me, se la cosa può avere qualche importanza). Ma come la goccia non può essere il rimedio per chi ha ingerito il barile (perché anche la goccia, come il barile, è veleno), così l’uso del veleno (cioè la fede) non può essere il principio per il quale si riesce a ingerire una dose minore di veleno. E poi: per molti, oggi, la violenza della proibizione di uccidere è certo preferibile alla violenza dell’omicidio; ma la preferenza è daccapo una fede.

Che ne sarà domani di questa fede, quando gli uomini saranno troppi e non ci sarà più posto per loro sulla Terra? Per i privilegiati che avranno la forza, la violenza del genocidio non diventerà forse preferibile alla violenza del comandamento di non uccidere? Una forma di fede è la malafede. Incomincio a sospettare che sia abbastanza diffusa tra coloro che, intervenendo pubblicamente a proposito dei miei scritti, li qualificano come un’apologia della violenza. E’ vero proprio il contrario.

I miei critici seri, e sono parecchi, lo sanno da un pezzo. Nei miei scritti (in un articolo di giornale non possono proiettarsi che riduttivamente) si mostra che le radici della violenza affondano in un sottosuolo che non può essere esplorato dalla “nostra” cultura. E’ appunto per questo che ogni rimedio contro la violenza, proposto dalla “nostra” civiltà, è destinato a fallire. Innanzitutto per quanto si è qui incominciato ad accennare: ogni rimedio è una fede e la fede ha la stessa anima della violenza.

In quanto fedele, l’uomo è l’errante. L’errore è ciò che è e che ha errato. Il latino chiama erratum l’errore. Erratum significa ex-ratum; cioè il separarsi (ex), portandosi lontano da ciò che è ratum, cioè stabile, fermo – e quindi l’andare errando. La fede è ex-ratum. Ma nella lingua latina ciò che è ratum è stabilito da uomini e da dei. Dalla loro ratio (ragione). Il ratum è ciò che la ragione stabilisce. Nella parola ratio risuona la parola ars (“arte”). Il ratum è l’artefatto: la sua stabilità è il prodotto di una volontà di potenza (cioè di una fede) Ma la fede è veramente un errare perché va errando non rispetto a ciò che è semplicemente ratum da uomini o da dei, ma rispetto a ciò che sta e che né uomini né dei possono smuovere e, così stando, riesce ad essere la gloria del “si”. Meglio che dalla parola ratum o che dalla stessa parola “verità” (in cui risuona daccapo, come nella parola greca érgon, il senso del fare e dell’artefatto), ciò che sta è nominato dalla parola destino, nella quale è visibile la radice indoeuropea shta: lo stare.

Gli astri della fede e della vita vanno errando lontano dal destino. Ma il destino attende il tramonto dell’errare.

da archivio Corriere della sera (accesso per abbonati)

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4 pensieri riguardo “SI PUO’ GUARIRE CON UN VELENO? – di Emanuele Severino, Corriere della Sera – Venerdì 27 Giugno 1980

  1. Severino e’ veramente l’ultimo vero rivoluzionario del nostro tempo!…lo dimostra ancora una volta in questo articolo demolendo ogni concetto di fede, scienza e democrazia!… Peccato che come tutti i grandi geni non venga compreso e travisato… Ne abbiamo un esempio in questi giorni che con la violenza e con il subdolo convincimento si cerca, in nome di una scienza orientata da interessi di parte, di imporre un vaccino a chi non ha fede nella sua utilità, spacciandolo per un “dovere” verso la comunità. Una fede alla quale ti obbligano a credere a piegarti se non vuoi essere tacciato di egoismo.

    Buona vita

    Doriam

    E se proprio questa fosse la situazione in cui si trovano le forze che si propongono di risolvere i problemi reali del nostro tempo: la situazione in cui ci si sforza di somministrare del veleno per guarire dall’avvelenamento? E se il veleno fosse proprio la fede come tale – e quindi nel suo esser presente in ogni forma di fede?

    A sua volta la scienza contemporanea enuncia tutte le proprie leggi “con timore e tremore” in quanto è consapevole della possibilità della loro smentita. La cultura occidentale è giunta alla convinzione che tutte le conoscenze di cui l’uomo dispone sono incapaci di liberarsi dall’ombra del “no”.

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  2. E’ inevitabile che, da che nasce, l’uomo avverta come prioritario l’andare alla ricerca di un Rimedio, di un Riparo che gli consenta di sopportare o addirittura di vincere l’angoscia, la sofferenza, la morte, Emanuele Severino
    https://antemp.com/2012/04/27/e-inevitabile-che-da-che-nasce-luomo-avverta-come-prioritario-landare-alla-ricerca-di-un-rimedio-di-un-riparo-che-gli-consenta-di-sopportare-o-addirittura-di-vincere-langoscia-la-sofferenz/?fbclid=IwAR1A7KgHLqgmdV0AHdBHM1qSCQFs4_A-GO8QMuG0rGYYe2i2GsKGlQrfEAE

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