Il prof Dario Berti ha pubblicato sul suo blog un saggio dal titolo Quando la penna non è. Osservazioni critiche sulla filosofia di Emanuele Severino (1998), il saggio è del il 3 agosto 2015.

L’ontologia di Severino, ad avviso di Berti, si fonderebbe sul fraintendimento della nozione di significato.
Vediamo.
Berti fa l’esempio di una penna: “Supponiamo ora”, egli afferma, “che io bruci una penna con un accendino”. Poi egli aggiunge: “Ma sulla base di quale argomento Severino ritiene che la penna continuerà ad esistere, anche dopo che al suo posto sarà subentrato un groviglio di plastica? (…) Sulla base di un argomento a priori, che deduce l’esistenza della penna a partire dall’analisi del significato del termine “penna”. Questo vuol dire che, per Severino, il giudizio: “La penna esiste” è, a pieno titolo, un giudizio analitico” (il giudizio analitico è un giudizio nel quale il significato espresso dal predicato è già contenuto nel significato espresso dal soggetto). “La nozione di “esistenza””, continua Berti, “deve cioè convenire necessariamente al significato di “penna”, in modo tale che ogni tentativo di strapparvela conduca a una contraddizione”.
“Ma”, si chiede Berti, “per quale ragione la nozione di “esistenza” dovrebbe convenire analiticamente al significato del termine “penna”? Perché, per Severino, pensare alla penna significa pensare a qualcosa di determinato e di positivamente significante (una certa figura, una certa lunghezza, un certo peso, un certo colore). Tutto ciò che è positivamente significante, come tale, non significa “nulla” (che è invece l’assenza di figura, lunghezza, peso, colore); e, in quanto è così diversamente significante, non può essere identico al nulla. Ma, se non è identico al nulla, di esso si deve dire che non è nulla, e quindi che è, esiste”.
Ancora un po’ di pazienza, anche perché credo sia utile ascoltare la viva voce di Berti. Scrive dunque il professore nel suo saggio Quando la penna non è:
“Severino sostiene che il giudizio: “Quando la penna è nulla” equi- vale logicamente al giudizio: “Quando l’essere è nulla”, perché la penna è un “positivo” e un “essere determinato” in un certo modo. Ma cosa vuol dire che la penna è un “positivo” e un “essere determinato” in un certo modo?”
“Se escludiamo che Severino si stia riferendo alla positività semantica del termine “penna”, e assumiamo invece che stia parlando dell’oggetto che il termine “penna” designa, non resta che una sola risposta: quando Severino afferma che la penna è un positivo e un essere determinato in un certo modo, sta dicendo che l’oggetto denotato dal termine penna esiste, sta cioè dicendo che la penna esiste”.
“In questo modo, però, l’argomento di Severino si avvolge in una petitio principii. È chiaro, infatti, che se io predico la non esistenza di un oggetto esistente, cado in una contraddizione. Ma questo è, appunto, quel che si tratta di dimostrare. Severino, invece, sembra assumere surrettiziamente che la penna continui a esistere anche dopo la sua combustione, per poi servirsi di questo assunto allo scopo di dimostrare la contraddittorietà del divenire come gioco tra l’essere e il nulla”.
Fin qui Berti. Ora, il punto è proprio questo: non si tratta di “dimostrare” qualcosa come l’esistenza della penna “dopo che al suo posto sarà subentrato un groviglio di plastica”. A parte il fatto che la parola “dimostrazione” è del tutto inadeguata, infelice, anzi è fuori luogo. Perché? Perché la “dimostrazione” rinvia all’idea di prova, test, verifica. Non solo: l’esistenza della penna non è dedotta. Procediamo con ordine: innanzitutto occorre prestare ascolto al linguaggio che indica il destino e, sia detto tra parentesi, a questo punto diventa inevitabile sollevare la riflessione al massimo dell’astrazione. Dunque, “Il destino è la manifestazione del differire degli essenti tra loro e dal loro non essere” (La filosofia futura, Discussioni su verità e contraddizione, presentazione di Emanuele Severino)
Aggiungo un’ulteriore considerazione: il linguaggio filosofico che indica il destino testimonia l’IMPOSSIBILITA’ che ciò che è (penna, lampada, eccetera) non sia: perché tale linguaggio mostra che l’essente (penna, tavolo, lampada, eccetera) non si allontana mai da se stesso, non si smembra, non si lacera, non si squarta, non si separa da se stesso. Perché? Perché…La negazione del destino è autonegazione.
Che cosa dire circa l’autonegazione? Se il destino è il differire degli essenti tra loro e dal loro non essere, allora anche l’obiezione di Berti (un’obiezione che ha la pretesa di mettere in discussione il destino), se non vuole confondersi con il destino, se vuole essere altro dal destino, deve rimanere presso di sé; ossia l’obiezione al destino è un dire che DIFFERISCE dal destino (se così non fosse, non sarebbe un’obiezione che si contrappone al destino). Ma, ecco il punto, l’obiezione al destino (qualsiasi obiezione al destino), rimanendo presso di sé, non confondendosi con ciò che è altro da sé, sottostà al destino: perché l’obiezione, in actu exercito, afferma la differenza tra sé e il dire che afferma il destino, ossia l’obiezione non riesce a costituirsi come una negazione del destino stesso (l’obiezione al destino promette di essere altro dal destino ma non mantiene la promessa, in actu signato nega il destino, in actu exercito lo afferma), proprio perché il destino, ripetiamolo, è la manifestazione del differire degli essenti tra loro e dal loro non essere (la negazione del destino, dunque, è autonegazione).
Certo, con la mia replica di poche righe non posso dire di aver esplorato da cima a fondo l’arduo e famoso cap 6 di Ritornare a Parmenide; ma, prof Berti, andiamoci piano con affermazioni che suonano così: “l’argomento di Severino si avvolge in una petitio principii”…

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