Unanime cordoglio e profondo dolore ha suscitato non solo negli ambienti filosofici, culturali e accademici italiani ed europei ma anche nel più ampio contesto della migliore opinione pubblica democratica del nostro Paese la morte del filosofo Giulio Giorello. La notizia è giunta inaspettata giacché si sapeva che il professore Giorello era riuscito – almeno così sembrava – ad avere la meglio sul coranavirus. Come egli stesso aveva scritto il 4 giugno scorso in un articolo, dal tono amaro e cogitabondo, pubblicato sul “Corriere della sera”, di cui era tra i più illustri commentatori, dopo circa 50 giorni di ricovero (dal 24 marzo al 17 maggio) prima presso il Policlinico di Milano, poi presso l’istituto “Maugeri”, era tornato a casa, apparentemente guarito. Per la cronaca, non più rosa, tre giorni fa si era unito in matrimonio con la sua amata compagna, Roberta Pelachin. La morte, purtroppo, dopo una decina di giorni in cui le sue condizioni di salute avevano subito un netto peggioramento, lo ha colto ieri nella sua abitazione milanese.Non è certo questa la sede per un esame, vuoi pure sommario, del pensiero filosofico di Giorello, il quale è stato uno dei maggiori filosofi italiani della fine del Novecento e di questo così travagliato primo ventennio del terzo millennio. Ciò però non ci esime dal rendere un commosso e ammirato omaggio al suo elevato valore di filosofo, di storico della Filosofia della Scienza e di intellettuale democratico di sinistra, animato da un inesauribile desiderio di conoscenza e di diffusione della conoscenza e di costruzione di una società libera, a misura d’uomo, capace anche di essere felice.Giulio Giorello aveva 75 anni, essendo nato nel capoluogo lombardo il 14 maggio 1945. Si laureò dapprima in Filosofia (1968) e poi in Matematica (1971). La sua carriera di docente universitario iniziò subito dopo, vedendolo docente di Meccanica razionale presso le Università di Padova e di Catania, per poi passare ad insegnare Filosofia della Scienza presso l’Università Statale di Milano, in sintonia con quella che era la sua più forte “vocatio”. Diventava così il successore del suo Maestro, Ludovico Geymonat, una figura di filosofo quasi leggendaria nella filosofia italiana ed europea, oltre che antifascista, partigiano, comunista “eretico”. Si può senz’altro dire che Giorello è stato un pensatore autonomo e, insieme, un originale continuatore del razionalismo scientifico di Geymonat, del suo senso laico della vita, della sua assoluta refrattarietà all’irrazionalismo, al misticismo e alle pseudo-ideologie di destra. Giorello non ha mai fatto mistero del suo ateismo, che però lo spingeva al dialogo con i cattolici come il filosofo Antiseri e il cardinale Martini, che s’interrogavano, come lui, in modo libero e meditante sui rapporti tra religione e scienza, fede e ragione. Non a caso, un libro, da lui scritto insieme ad Antiseri, s’intitola “Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti”. Se prescindiamo, si fa per dire, dalla sua luminosa quanto sterminata produzione di opere di storia della Filosofia della Scienza, in cui dava prova di saper esporre in modo chiaro e brillante complesse teorie moderne, possiamo dire che il senso del suo pensiero filosofico è quello di un neo-illuminismo umanistico. Ostilissimo verso ogni dommatismo, fideismo, fanatismo, di marca sia religiosa che ideologica, ostilità espressa già dal titolo di uno dei suoi maggiori libri, “Di nessuna Chiesa”, il nostro filosofo sosteneva l’incontro tra scienza, discipline umanistiche ed etica, guidate da una ragione critica, di stampo illuministico e kantiano, per la sempre migliore realizzazione una società assolutamente antiautoritaria, refrattaria alle oligarchie del potere, libera, tollerante, laica, aperta e multiculturale. Uno dei massimi valori illuministici di Giorello, che riprendeva la lezione di Voltaire, era “la tolleranza intellettuale e pratica non come uno dei tanti «buoni» sentimenti ma come strumento concreto non solo per garantire la pace ma per consentire la crescita del sapere”. Non mancava – è il caso di dirlo – di denunciare quello che chiamava “il circolo vizioso tra invadenza della politica e corruzione”.Quello che si potrebbe chiamare, d’accordo con Giorello, il suo relativismo, non era fatuità sofistica, ma una lezione di metodo critico. Con vistosa vicinanza a Bertrand Russell, Giorello mirava all’esercizio di un senso critico che liberasse “gli individui da ogni assolutismo in campo etico-politico e morale”. Il suo relativismo – sempre in accordo con Russell e con un grande matematico come Bruno Finetti – consisteva nel rifiuto di poter conseguire “qualche verità fuori discussione per l’eternità”. La verità è, invece, che “non c’è alcuna pretesa verità di oggi che non rischi domani di essere considerata falsità”. E con ragione. Se vogliamo, anche Giorello, al pari di Russell, era uno “scettico”, sapendo però che “per essere scettici fino in fondo si dev’essere scettici anche nei riguardi dello scetticismo”.Per quel che direttamente mi riguarda, a Giorello mi lega, oltre l’ammirata lettura e studio di molti suoi libri (che peraltro rinverdivano in me il ricordo di essermi laureato in Filosofia della Scienza con una tesi su “Il problema del tempo nella relatività di Einstein” nel 1968), ma anche un ricordo di ordine familiare. Si tratta di questo. il 18 aprile 2012, la quarta edizione del “Premio Nazionale Frascati di Filosofia” vide come vincitore Giulio Giorello. L’altro vincitore, anzi vincitrice, fu mia figlia Mariafilomena Anzalone, alla quale venne assegnato il “Premio Esordiente” “per le sue ricerche su Hegel” (segnatamente per i suoi due volumi, “Volontà e soggettività nel giovane Hegel”, Luciano Editore 2008, e “Forme del pratico nella psicologia di Hegel”, Il Mulino 2012).Questo ricordo fa comprendere anche il mio emotivo coinvolgimento personale per la morte di questo illustre filosofo, che fu Giulio Giorello.
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