La nostra epoca si trova nell’« impossibilità di conciliare e risolvere l’antagonismo tra le posizioni ultime in generale rispetto alla vita» e nella «necessità di decidere per l’una o per l’altra». Questa affermazione è di Max Weber; ma esprime il punto di vista oggi dominante (esprime cioè la coscienza che la nostra epoca ha per lo più di se stessa). Parla delle «posizioni ultime in generale rispetto alla vita». Ad esempio: cristianesimo, ateismo, tradizione filosofico-metafisica, capitalismo, comunismo, democrazia, Stato totalitario, individualismo, islam. Ognuna di queste «posizioni ultime» vuole realizzare uno scopo, che, anche quando si propone di «dialogare» con gli altri scopi, non intende esser loro sottomesso, cioè si presenta come incondizionato, sciolto (solutus) da tutti i vincoli della sottomissione, «as-soluto», appunto. Come un «dio ». Tra queste «posizioni ultime» – tra questi «dèi» – esiste dunque un antagonismo insuperabile; per cui ci si trova nella «necessità di decidere per l’una o per l’altra». E Weber aggiunge: «Su questi dèi e sulle loro lotte domina il destino, non certo la scienza». In quest’ultima affermazione, «scienza» ha ancora il senso di «sapere incontrovertibile». Si deve «decidere per l’una o per l’altra» di tali «posizioni ultime» proprio perché non esiste un sapere che mostri incontrovertibilmente quale di esse si debba scegliere. La parola «destino», contrapposta a «scienza», non deve infatti trarre in inganno. «De-stino», di derivazione latina, indica soprattutto lo «stare» delle cose, cioè la condizione del loro non esser «contro-verse» e del loro esser garantite. Il latino vertere indica l’ opposto della stare. Il «de-stino» è cioè in sintonia con l’«in-controvertibile». Le parole tedesche Geschick e Schicksal, che noi traduciamo come «destino», indicano invece proprio l’opposto del «destino», inteso come lo «stare» delle cose nel loro esser garantite: indicano piuttosto la «sorte», il «caso», la «ventura», l’accadimento del mondo, privo di garanzia, protezione, stabilità, il suo vertere e verti.
(Emanuele Severino – “L’intima mano”, pp. 53 – 54)