Un pomeriggio dalla luce grigio-pervinca che precede il temporale e un bambino sui quattro anni seduto per terra sotto il grande tavolo della cucina. Dai lati scendono i lembi della stoffa che lo ricopre. La mamma si muove nella stanza. Sta aspettando la nuova ragazza che avrebbe aiutato in casa e che finalmente entra. Il bambino, ora, è più tranquillo – ma per quanto? Fuori ha incominciato a piovere.
Questo è il ricordo più lontano che ho di me stesso e del mondo. Cosa ben poco importante – ma, forse, in ognuno il ricordo più lontano tende a tener la testa fuori dall’acqua. Inoltre, non avrei dovuto dire: “Questo è il ricordo più lontano che ho di me stesso, ma: ” ” ” ‘Credo’ che lo sia. Non solo. Va detto anche: ” ‘Credo’ di essere stato quel bambino”. Che lo sia stato non è una verità indiscutibile: è una fede. Di solito, chi crede qualcosa senza esitazioni nel suo cuore (‘et non haesitaverit in corde suo’ dice il Vangelo) non sa di crederlo: si consegna completamente a ciò in cui crede e lo tratta come qualcosa di indiscutibile. Ma si illude. Come s”ingannerebbe chi, andando in giro di notte, fosse convinto di essere in pieno giorno. Si crede – si ha fede – proprio perché non si vede; e d’altra parte il credente è tale proprio perché tratta l’invisibile come visibile. Il suo illudersi è un contraddirsi. È un ‘errare’: ricordare è errare. Un libro di memorie è un errare.
(Emanuele Severino, Il mio ricordo degli eterni, Rizzoli, pp. 7-8).