Emanuele Severino sul “Destino della verità “

Quando parliamo del Destino parliamo non di un punto semantico. Hegel nella Logica dice che il significato essere non è divisibile, non contiene altri significati. Il punto semantico è il significato che non è divisibile in altri significati. Il punto semantico è il puro semantema di fronte al quale non si può dire né che sia vero né che sia falso, è il puro semantico non apofantico. Il destino è il semantico apofantico, cioè una struttura. La struttura del Destino la richiamiamo quando diciamo: il Destino è l’essere sé dell’essente, cioè il suo non esser altro da sé, cioè il suo non diventare altro, cioè il suo essere eterno. Qui è in discussione il rapporto tra linguaggio e Destino. La sequenza che ho appena pronunciato è una rozza esemplificazione di ciò che chiamiamo la struttura originaria del Destino, è un’indicazione formale. Eterno è ciò che è sempre, ciò che non si imbatte in un tempo che non sia, ciò che non è tempo. Il linguaggio parlando del Destino è inevitabile che vada incontro ad una essenziale incomprensione. Il principio di non contraddizione come tratto fondamentale dell’episteme è immerso nell’allienazione per cui il principio di non contraddizione è contraddittorio e l’apparire è ciò che è impossibile che appaia. Ora il linguaggio che cosa opera portandosi verso l’ascolto del Destino? Opera l’isolamento di ciò di cui i suoi tratti sono indicazioni. Allora se indichiamo in questo modo le forme linguistiche che indicano questa molteplicità di determinazioni in cui consiste la struttura originaria del Destino, ritorna la retoricità, quella dimensione diacronica del linguaggio di cui già avevamo parlato. Dunque è inevitabile che il linguaggio che parla del Destino, poiché non dice tutto in una volta sola, dica man mano ciò che è in una volta sola. Questa sequenza è in una volta sola, che cosa voglia dire in una volta sola è indicato nei miei scritti. Anche lì però il linguaggio non dice tutto insieme ma di volta in volta, “via via”. E questo “via via”, e poi e poi, fa si che le determinazioni del Destino che sono essenzialmente connesse l’una all’altra il linguaggio incominci a testimoniarle, esso parla dell›esser sé dell’essente, e l’essere sé dell’essente è messo in rilievo, allora diventa immagine, gli è conferito un significato, questo conferimento è volontà che vuole che qualcosa sia segno ma in questo modo l’essere sé dell’essente si presenta come qualcosa di isolato dalle altre determinazioni, come qualcosa che non ha bisogno delle altre determinazioni per esibire la propria significanza e la propria verità. Il linguaggio cattura, isola le determinazioni della struttura originaria, le cattura isolandole, la parola cattura, isola le cose ma per quanto riguarda il Destino l’isolamento fa sì che questa intervista ad esempio in quanto linguisticamente espressa, non sia il Destino e quindi sia negabile. Il linguaggio indica ciò che isolato non è ciò che esso è in quanto strutturato con le altre determinazioni. Questo esser sé dell’essente possiamo indicarlo così a=a. L’identità di ogni essente con sé stesso. (Da un’intervista a Emanuele Severino pubblicata su Lo Sguardo – Rivista di Filosofia )

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