“ Da un lato, [il mortale] teme la terra che salva perché vede in essa il non continuar più della vita, cioè della volontà, cioè di sé stesso. E infatti, con l’avvento della terra che salva, la vita è ‹compiuta› e anche se tutto ciò che essa è stata è eternamente conservato essa tuttavia non continua più. Dall’altro lato egli teme che il continuare della vita sia il continuare del dolore e della morte, essenzialmente legati alle felicità e ai piaceri della terra isolata. Il suo timore cresce ancora quando sente dire che, con l’avvento della terra che salva, in ognuno degli infiniti cerchi del destino, in ognuno dei quali appare la terra isolata e in essa i mortali, è destinata ad apparire la terra isolata, cioè la vita di tutti gli altri cerchi, e pertanto la totalità del dolore «umano».
Qui non si tratta di rassicurare il mortale, ma di mostrare la verità del destino. […] Il bisogno di rassicurazione sta al centro dell’errare estremo. Va comunque rilevato, in relazione al primo di quei due lati, che la nostalgia dell’«umano» è quel che meno ha motivi di farsi sentire, perché tutto ciò che l’«uomo» (e ogni essente) può essere è eternamente ed è appunto destinato a sopraggiungere e ad apparire in ogni cerchio (in ogni cerchio è destinata ad essere sperimentata nella sua concretezza). E la totalità dell’«umano» è infinita, perché infiniti sono i cerchi del destino.”
EMANUELE SEVERINO (1929 – 2020), “Dike”, Adelphi, Milano 2015 (prima edizione), Parte Terza, III riguardando il percorso’, 10. ‘La terra che salva’, pp. 362 – 363.