Emanuele Severino ci pone la seguente questione:
“noi” siamo autenticamente noi stessi – ossia in noi l’esser sé appare nel suo puro esser sé, per ciò che esso è, dunque nel suo non essere avvolto dalla contraddizione – in quanto noi siamo il luogo originario della contraddizione, oppure noi siamo autenticamente, veramente noi stessi là dove, nell’apparire infinito del destino, il nostro essere contraddizione (che peraltro è esso stesso un eterno) è totalmente e concretamente oltrepassato?
L’io che é il cerchio originario dell’apparire del destino (il cerchio cioè che, accogliendo la terra e il suo isolamento, accoglie anche l’ “io” che appartiene alla terra isolata e che, nella Follia di tale isolamento, è riconosciuto, esso soltanto, come il nostro vero esser un io, capace di far diventar altro le cose della terra) è compiutamente se stesso nel suo essere il luogo originario della contraddizione, oppure è compiutamente se stesso là dove l’apparire infinito del destino oltrepassa già da sempre e per sempre la totalità della contraddizione?
Ecco la risposta di Emanuele Severino alle domande da lui stesso poste:
il finito è autenticamente se stesso solamente in quanto esso è l’infinito, ossia in quanto esso, come apparire infinito del destino dell’essere, è compiutamente libero dalla totalità delle sue contraddizioni. […] L’apparire infinito del tutto è (…) il nostro inconscio essenziale, ciò che autenticamente siamo, ma che nella sua concretezza assoluta non può apparire in “noi” in quanto cerchio finito del destino.
(Emanuele Severino, Oltre l’uomo e oltre Dio, pp. 83-84)