Entro la dimensione nichilistica dell’Occidente non si può non essere “leopardiani”. Ma qual’è in Leopardi la forma del rapporto tra filosofia e poesia?
Negli iniziali “pensieri” dello ‘Zibaldone’ poesia e filosofia sono due cose essenzialmente diverse. “La filosofia è la visone della verità, cioè della nullità delle cose; la poesia è l’illusione che volta le spalle alla verità e unisce l’uomo all'”infinito”. Ma successivamente Leopardi capisce che, nell’età della scienza e della tecnica, all’uomo non è più consentita alcuna illusione in relazione al nulla che sempre più incombente gli sta davanti e lo attraversa.
Rimane però, nel ‘genio’, la ‘forza’, la grandezza, la potenza con cui egli esprime lo spettacolo terribile del nulla e questa forza è la poesia – che dunque non è un sogno ozioso e separato da quello della filosofia, ma è la potenza stessa del linguaggio filosofico.
Ben presto, cioè, poesia e filosofia diventano in Leopardi una unità grandiosamente potente.
La ‘forza’ con la quale il genio esprime la nullità delle cose gli consente di sporgere ancora per un poco al di sopra del nulla e di sollevare in alto con sé gli uomini, ancora per un poco. Solo l’unità di filosofia e poesia consente un’ultima provvisoria salvezza dal nulla.
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Dunque Leopardi è un pensatore “epocale”?
“Raccoglie in sé l’intera epoca dell’Occidente”.
Come va visto il cosiddetto “pessimismo” del Leopardi?
“Se il “pessimismo” è la vocazione per il nulla – e dunque è la fede nel divenire, cioè nel nichilismo -, il pessimismo appartiene all’essenza dell’uomo occidentale: ai Padri della Chiesa, a Leibniz, a Goethe non meno che a Leopardi.
Tutta la cultura dell’Occidente, e dunque tutta la cultura “ottimistica” dell’Occidente, ha al proprio fondamento il “pessimismo”, la fede nell’oscillazione delle cose tra l’essere e il nulla e, nonostante ogni suo tentativo di mascherarsi, è questa fede la matrice dell’angoscia che avvolge l’Occidente”.
(Emanuele Severino)